La Cop26 di Glasgow: gli accordi sul clima in 10 punti


1. Premessa

Dal 31 ottobre al 13 novembre 2021 si è tenuta a Glasgow la Cop26, conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.

Oltre 190 leader mondiali, decine di migliaia di negoziatori, rappresentanti di governo, imprese e cittadini si sono riuniti per due settimane di fitti negoziati, finalizzati all’adozione delle misure per contenere e, se possibile, invertire il processo di surriscaldamento globale e il conseguente cambiamento climatico.

La Cop26 si è inserita nel solco tracciato dalla Cop21, tenutasi a Parigi nel 2015, in occasione della quale, per la prima volta, tutti i Paesi avevano accettato di collaborare per limitare l’aumento della temperatura globale al di sotto di 2 gradi, puntando a ridurlo a 1,5 gradi. Gli stessi Paesi si erano impegnati ad adattarsi agli impatti dei cambiamenti climatici e a mobilitare i fondi necessari per raggiungere tali obiettivi. Detti impegni erano confluiti nel documento conclusivo della Cop21, conosciuto come l’Accordo di Parigi, che è diventato, negli anni successivi, il principale punto di riferimento a livello internazionale in materia di contrasto al cambiamento climatico.

Muovendo dagli impegni dell’Accordo di Parigi, i Paesi partecipanti alla Cop26 hanno individuato nuovi obiettivi che dovranno guidare l’approccio comune alle tematiche relative al clima e alla tutela dell’ambiente, primo fra tutti il mantenimento del riscaldamento globale entro il limite di 1,5 gradi in luogo dei 2 gradi indicati nel menzionato accordo.

Tale impegno, così come gli ulteriori obiettivi individuati nel corso della conferenza, sono stati inseriti in un documento finale, il Patto di Glasgow, che costituisce l’esito delle negoziazioni e dell’attività diplomatica messa in campo dai Paesi partecipanti, e rappresenterà il programma di riferimento per le politiche nazionali e internazionali a protezione del pianeta e degli ecosistemi dei prossimi anni. Di esso si darà sinteticamente conto nei paragrafi che seguono.

2. Gli obiettivi di decarbonizzazione: il taglio delle emissioni e la riduzione dell’uso dei combustibili fossili

Tra le decisioni di maggiore rilievo contenute nel Patto di Glasgow va segnalata l’individuazione di nuovi obiettivi minimi di decarbonizzazione: un taglio del 45% delle emissioni di anidride carbonica rispetto al 2010, da attuarsi entro il 2030, e il raggiungimento di zero emissioni nette “intorno alla metà del secolo – indicazione temporale generica voluta da Cina, Russia e India, indisponibili all’assunzione di detto impegno entro il 2050.

Il risultato forse più deludente della Cop26 è stata l’eliminazione dal documento finale dell’impegno alla dismissione dei combustibili fossili, modifica aspramente criticata dalla comunità e dagli osservatori internazionali, ma pretesa dai maggiori consumatori di carbone, India in testa. L’impegno a “eliminare gradualmente l’uso del carbone e i finanziamenti per i combustibili fossili”, contenuto nella prima bozza del documento, è stato sostituito, nel Patto di Glasgow, da un ben più modesto impegno a “ridurre gradualmente l’uso del carbone e i finanziamenti per i combustibili fossili”. Si tratta comunque di una previsione estremamente rilevante poiché, per la prima volta, i combustibili fossili vengono menzionati in un documento di chiusura di una COP.

3. Obiettivo “Net Zero”

Come accennato (cfr. retro, Sez. 2), la cover decision del Patto di Glasgow raccomanda di tagliare le emissioni nette di anidride carbonica del 45% entro il 2030, rispetto ai livelli del 2010, per arrivare allo zero netto attorno alla metà del secolo. Un compromesso per chi punta al 2060 come Cina, Russia e Arabia Saudita, o al 2070 come l’India.

Secondo il comune sentire, concentrarsi su tagli rapidi e profondi alle emissioni prodotte dalla catena del valore è il modo più efficace e scientificamente valido per limitare l’aumento della temperatura globale. Al riguardo, come detto, Cop26 recepisce e ribadisce l’impegno a contenere l’aumento delle temperature medie ben al di sotto della soglia critica dei 2 gradi e il più vicino possibile a quella dei 1,5 gradi, come caldeggiato dagli scienziati e dall’Accordo di Parigi del 2015.

Questo è l’obiettivo centrale del Net-Zero Standard, il quale deve rappresentare la priorità assoluta per le aziende. Lo standard Net-Zero copre l’intera catena del valore, comprese le emissioni generate dal proprio processo produttivo, nonché dall’elettricità e dal calore acquistati e quelle generate da fornitori e utenti finali.

Il raggiungimento di tale obiettivo, in particolare il raggiungimento dello zero netto secondo lo standard, richiederà una profonda decarbonizzazione. Le aziende che adottano lo standard Net-Zero sono tenute a fissare obiettivi basati sulla scienza sia a breve (2030) che a lungo termine (2050). D’altra parte, questo è quanto già accade con riferimento al sistema BAT (best available techniques) – che rappresenta criteri che sono fissati come target di riferimento per migliorare l’efficienza e la qualità, anche in termini di contenimento delle emissioni, del processo produttivo di un’azienda.

4. Il mercato del carbonio: art. 6 dell’accordo di Parigi e nuove regole per il “CDM”, il Voluntary Carbon Market e la proposta europea di un ETS globale

Le modifiche relative all’articolo 6 dell’Accordo di Parigi hanno rappresentato uno dei punti più controversi nel contesto della Cop26. E infatti, mediante tale disposizione, si strutturano meccanismi volti a creare un mercato del carbonio – i.e. un sistema di scambio delle emissioni tra i Paesi, attraverso il quale chi inquina meno compensa chi sfora i limiti o ha bisogno di aiuto per non superarli. 

Gli emission trading systems sono “sistemi” in vigore da anni. Rispetto a tali sistemi tipici, l’articolo 6 dell’Accordo di Parigi si diversifica, in quanto lo stesso prevede sostanzialmente un sistema di cooperazione internazionale, sia tra singoli Stati sia con la regia delle Nazioni Unite, per creare progetti che accelerino l’assorbimento di emissioni, specie nei Paesi in via di sviluppo. Quel che rileva, infatti, è che, a differenza del precedente accordo di Kyoto, l’articolo 6 dell’Accordo di Parigi si basa su progetti finalizzati all’abbattimento delle emissioni (ad esempio, il sostegno alla riqualificazione energetica). 

Questo sistema di cooperazione internazionale è stato per l’appunto al centro dei negoziati specifici a Cop26. In particolare, nell’ambito della Cop26, sono state adottate tre importanti decisioni che hanno dato attuazione rispettivamente ai commi 2, 4 e 8 dell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, che aveva previsto tre distinti meccanismi di scambio di crediti.

Mentre il primo meccanismo prevede un sistema internazionale e bilaterale di scambio di crediti, denominati ITMO (“Internationally transferred mitigation outcomes”), con il secondo si crea un nuovo mercato internazionale del carbonio, governato da un organismo delle Nazioni Unite, per lo scambio di riduzioni di emissioni create ovunque nel mondo, tanto dal settore pubblico quanto da quello privato. Questo nuovo mercato è denominato “Meccanismo di sviluppo sostenibile” (SDM) e sostituisce il “Clean development mechanism” (CDM) istituito dal Protocollo di Kyoto.

Il terzo meccanismo, allo stato ancora a livello di roadmap, riguarda invece i cosiddetti “approcci non di mercato”, e si propone di favorire la cooperazione climatica tra i Paesi in contesti non commerciali, come ad esempio quelli degli aiuti allo sviluppo.

In mancanza, allo stato, di norme attuative del terzo meccanismo, si può considerare il quadro delineato nel corso della COP26 come composto sostanzialmente da due parti: un primo sistema centralizzato, aperto al settore pubblico e privato, e un secondo sistema bilaterale separato, che permetterà ai Paesi di scambiare crediti che essi possono usare per raggiungere i propri obiettivi di decarbonizzazione.

Di particolare rilevo è stata la discussione relativa al meccanismo del cosiddetto “carry on” ossia la possibilità di utilizzare, nel nuovo sistema di scambio, i crediti generati secondo le regole del CDM del protocollo di Kyoto – ipotesi avversata da diversi Paesi, tra cui la Germania, poiché si tratta di crediti di qualità molto bassa, equivalenti cioè ad una riduzione di CO2 molto scarsa o nulla – e che è stata infine concessa, ma solo con riferimento ai crediti successivi al 2013.

Il regolamento adottato a Glasgow ha poi definitivamente eliminato il fenomeno del cosiddetto “doppio conteggio”, chiarendo che i Paesi in cui viene generato un credito di compensazione di CO2 devono eliminare questa riduzione dal proprio bilancio globale di emissioni (“adeguamento corrispondente”) se un altro Paese lo utilizza per rispettare il proprio limite di emissioni autorizzate (cd. NDC, ossia “Nationally Determined Contributions”).

Sempre con riferimento al meccanismo centralizzato, governato dalle Nazioni Unite, si segnalano infine due ulteriori novità, ossia (i) la previsione della cancellazione del 2% dei crediti di riduzione delle emissioni ufficialmente autorizzati e scambiati in modo da garantire una riduzione effettiva delle emissioni di gas serra e non solo uno scambio dei relativi crediti tra Paesi più e meno virtuosi, e (ii) la destinazione del 5% del ricavato degli scambi di compensazione al Fondo di Adattamento, che sostiene le nazioni più povere nei loro sforzi per combattere gli effetti del cambiamento climatico. Né la cancellazione obbligatoria né il prelievo obbligatorio si applicheranno ai crediti nel sistema bilaterale.

Nell’ambito della discussione relativa all’attuazione dell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi non si è invece fatta chiarezza in merito alla compravendita di crediti su base volontaria.

Oltre al CDM, regolato come si è detto dalle Nazioni Unite, esiste infatti anche un mercato libero di crediti di carbonio, detto Voluntary Carbon Market (VCM), che ha dimensione globale e opera su base volontaria (non prevede dunque soglie o tetti di quote di emissione). Tale mercato consente a imprese, organizzazioni o anche individui, che vogliano neutralizzare o ridurre le emissioni generate dalla propria attività, ma che non siano nelle condizioni di sostenere, quantomeno nel breve termine, gli investimenti necessari per ottenere tale riduzione, di acquistare e utilizzare crediti di compensazione di carbonio all’interno del VCM. Tali crediti sono generati prevalentemente da progetti e iniziative a favore del clima promossi in Paesi in via di sviluppo, e vengono rilasciati e certificati da fornitori esterni di standard di qualità. Anche in questo mercato così come in quello governato dalle Nazioni Unite, esiste un’esigenza di evitare il “doppio conteggio” o, per meglio dire, il doppio utilizzo dei crediti di compensazione. Pertanto l’utilizzo di un credito da parte di chi l’abbia acquistato per ridurre o azzerare la propria impronta di carbonio ne determina la cancellazione dal mercato, in modo da evitare il riutilizzo o il conteggio ripetuto delle medesime riduzioni.

Come detto, la discussione sviluppatasi in seno dalla Cop26 circa l’implementazione dei meccanismi previsti dall’articolo 6 dell’Accordo di Parigi non ha toccato la compravendita di crediti su base volontaria e continuano pertanto a mancare, allo stato, linee guida esplicite per il VCM e per i progetti privati realizzati al di fuori del NDC di un determinato Paese o comunque non conteggiabili negli obiettivi di riduzione delle emissioni dello stesso.

Per quanto riguarda infine il panorama europeo e le tendenze future dell’Emission Trading System – il sistema di scambio di crediti da riduzione di emissioni adottato nel 2005 dall’Unione Europea – gli sviluppi più rilevanti, emersi nel corso della Cop26, saranno, per un verso, l’imminente estensione dell’Emission Trading System al settore marittimo e ai settori del trasporto su strada e del riscaldamento e raffreddamento degli edifici, e, per altro verso, l’implementazione – come si vedrà nel paragrafo che segue – di un “carbon border adjustment mechanism”, che consentirà di applicare un carbon price anche ai prodotti realizzati in Paesi che non prevedono meccanismi di carbon pricing, esattamente come se quel prodotto fosse stato realizzato in Europa e all’interno dell’Emission Trading System.

5. La Carbon Tax – L’introduzione del sistema CBAM

Una delle maggiori novità introdotte dal Patto di Glasgow è stata la richiesta fatta, per la prima volta in via esplicita, ai Paesi contraenti di “ridurre gradualmente” la loro dipendenza dal carbone e dai combustibili fossili: nonostante ciò, nel testo del documento non sono presenti misure riguardanti la creazione e l’applicazione di un meccanismo mondiale di fissazione del prezzo dei combustibili fossili. L’assenza di una tale proposta è fortemente in contrasto con il trend adottato negli ultimi anni dalle autorità deputate al controllo delle emissioni dannose: esse infatti prediligono l’implementazione di strumenti che agiscono direttamente sul prezzo dei combustibili fossili – tra cui la leva fiscale – che stanno portando a risultati positivi sul versante della riduzione dell’inquinamento.

Pioniera in questo campo è sicuramente l’Unione Europea che ha adottato nel 2005 l’Emission Trading System (“ETS”), ovvero un sistema di scambio di quote di emissione di gas serra, il cui modello è stato replicato anche in altri Paesi. L’ETS non ha mai avuto un’applicazione coordinata su base mondiale, ma non è irragionevole pensare che i Paesi firmatari del Patto di Glasgow possano includere una misura di tale portata tra quelle che intendono selezionare al fine di raggiungere l’obiettivo prefissato durante la Cop26. Parallelamente, l’Unione Europea si è attivata in maniera autonoma a tutela del proprio mercato interno, prevedendo l’affiancamento all’ETS del sistema CBAM (“Carbon Border Adjustment Mechanism”, meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere), il quale avrà l’obiettivo di disincentivare, attraverso aggravi di costo, l’importazione di beni:

(i) risultanti da processi produttivi che comportano l’emissione di notevoli quantità di gas serra;

(ii) di provenienza da Paesi che non dispongono di sistemi di fissazione del prezzo delle emissioni di gas serra sul modello del sistema ETS.

Gli obiettivi del CBAM sono duplici:

(i) da un lato, esso mira ad attenuare le disparità tra i produttori europei che sostengono i costi derivanti dall’adozione a livello europeo dell’ETS e i produttori extra UE, che, in quanto soggetti a obblighi legislativi meno stringenti, riescono a entrare sul mercato europeo con prezzi più competitivi (dumping);

(ii) dall’altro, evita che gli sforzi di riduzione delle emissioni dell’Unione Europea siano vanificati da un aumento delle emissioni nei territori Extra UE.

Il meccanismo applicativo che verrà utilizzato per l’attuazione sistema CBAM è stato oggetto di studio. La Commissione Europea aveva preso in considerazione le seguenti opzioni:

(i) l’introduzione di un’imposta sulle importazioni (ribattezzata Carbon Border Tax), la cui riscossione sarebbe demandata alle autorità doganali;

(ii) l’implementazione, anche per gli importatori extra UE, di un sistema simile a quello ETS, in cui i valori delle emissioni sono parametrati sulla base di standard prestabiliti;

(iii) l’implementazione, anche per gli importatori extra UE, di un sistema simile a quello ETS, in cui però sono adottati i valori effettivi delle emissioni;

(iv) una variante dell’opzione di cui al numero (3), corredata da un inasprimento del sistema ETS e un’implementazione progressiva del CBAM;

(v) una variante dell’opzione di cui al numero (3), con perimetro applicativo più ampio e comprendente altresì gli intermediari che operano a valle della catena del valore;

(vi) l’introduzione di un’accisa sui materiali ad alta intensità di carbonio (ribattezzata Carbon Excise Tax).

Il meccanismo applicativo di cui al numero (iv) è quello giudicato come più adatto dalla Commissione Europea per il raggiungimento degli scopi di cui sopra.

Per garantire alle imprese e ad altri Paesi certezza del diritto e stabilità, il CBAM sarà introdotto gradualmente e, inizialmente, la sua applicazione è prevista solo per un determinato numero di merci la cui produzione è considerata più dannosa in termini di emissioni di carbonio, ossia: ferro, acciaio, cemento, fertilizzanti, alluminio e generazione di energia elettrica.

Trascorso il periodo di transizione – previsto dal 2023 al 2025 – la Commissione Europea valuterà il funzionamento del CBAM e deciderà se estenderne il campo di applicazione a un maggior numero di prodotti e servizi, anche a valle della catena del valore, e se includere le cosiddette emissioni “indirette” (ossia le emissioni di carbonio derivanti dall’energia elettrica utilizzata per produrre le merci).

6. La transizione energetica

Tra i vari temi affrontati durante la Conferenza, particolare rilevanza hanno assunto le discussioni sulla transizione energetica, dalle quali emerge l’intenzione degli Stati di procedere verso un graduale passaggio alle energie rinnovabili, soprattutto per i paesi che dipendono dalle entrate dei combustibili fossili.

Dalle varie dichiarazioni rilasciate dagli Stati, comprendiamo che le rinnovabili avranno un ruolo fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi di riduzione di gas serra. La commissaria europea per l’energia Kadri Simson, ad esempio, ha dichiarato nel suo intervento in sede di Cop26 che l’Unione Europea intende focalizzarsi soprattutto su rinnovabili, energia offshore e idrogeno rinnovabile per rispettare gli accordi di riduzione delle emissioni. A luglio infatti la Commissione Europea ha pubblicato una proposta legislativa che aumenta il target UE sulle energie rinnovabili dal 32% ad almeno il 40% entro il 2030. Tra le fonti energetiche su cui l’Unione Europea ha deciso di investire figurano l’eolico offshore e l’idrogeno rinnovabile. Per quanto riguarda la prima delle due fonti, l’Unione Europea ha pubblicato un anno fa una Strategia dedicata alle energie rinnovabili offshore (“EU strategy on offshore renewable energy”), con cui prevede di realizzare 300 GW di capacità eolica offshore e 40 GW di energie rinnovabili oceaniche, come le onde, le maree e il solare galleggiante. Per attuare tale Strategia però, a detta della Commissaria, sarà necessario snellire i processi di autorizzazione e sviluppare reti adeguate sia a terra che in mare aperto. Anche l’idrogeno rinnovabile sarà fondamentale per decarbonizzare i settori “hard to abate”.

Sul fronte internazionale invece ha suscitato interesse l’annuncio del primo ministro indiano Narendra Modi, che ha dichiarato che il paese prevede di soddisfare il 50% del fabbisogno energetico da fonti rinnovabili entro il 2030, aumentando la capacità energetica da combustibili non fossili a 500 gigawatt entro lo stesso anno.

Nonostante l’enfasi posta sulle rinnovabili, dalle varie dichiarazioni rilasciate al termine della Conferenza emerge una propensione per una transizione graduale verso l’energia green e per riforme che assicurino, come affermato nello Statement “Supporting the Conditions for a Just Transition Internationally”, che “nessuno sia lasciato indietro nella transizione verso un futuro a impatto zero e resiliente al clima”. Gli Stati infatti hanno chiarito che nel processo di transizione verranno prese in considerazione le sfide affrontate dai paesi che dipendono dalle entrate dei combustibili fossili: una posizione che si riflette anche sulla cover decision del Patto di Glasgow, che, mettendo da parte l’obiettivo del graduale “abbandono” del carbone, si limita a chiedere, nella sua versione definitiva, una graduale “riduzione” dell’utilizzo di questa fonte.

A livello europeo infine, il vice presidente esecutivo della Commissione Europea Frans Timmermans, non ha escluso la possibilità di valorizzare alternative alle fonti rinnovabili per rispettare l’impegno dell’Unione Europea di porre fine alla sua dipendenza dal petrolio, dal gas e dal carbone, come ad esempio la combustione di biomassa forestale.

7. Carbon Capture and Storage (“CCS”) e idrogeno blu

L’idrogeno blu è da molti considerato un importante vettore energetico in un futuro mondo decarbonizzato. Attualmente, la maggior parte dell’idrogeno è prodotto mediante “steam reforming” del metano (c.d. “idrogeno grigio”), con elevate emissioni di anidride carbonica.

La tecnologia proposta per ridurre queste emissioni è rappresentata dalla cattura e dallo stoccaggio del carbonio (tecnologia CCS) finalizzata alla produzione del cosiddetto “idrogeno blu“ – soluzione a “basse emissioni” o a “idrogeno compensato”.

I dati, tuttavia, sono tutt’altro che pacifici.

In generale, ciò che maggiormente viene contestato al sistema del CCS è che:

(i) l’idrogeno blu dia risultati quantitativamente poco rilevanti e sia economicamente conveniente solo per le aziende fossili;

(ii) il sistema non faccia altro che rinviare il problema CO2 alle generazioni future e, comunque, abbia costi elevati e rischi sismici e ambientali.

La Strategia Europea sull’idrogeno è molto incisiva nel raccomandare una “priority to develop renewable hydrogen” ma non l’idrogeno blu.

La COP26 non ha preso una posizione drastica su CCS e idrogeno blu e forse proprio perché, oltre a esserne molto discussa la reale efficacia in termini di abbattimento delle emissioni nel lungo periodo, gli investimenti che tali infrastrutture richiedono (in termini sia pubblici che privati) sono tali da non poterli considerare direttamente come strategici e necessari rispetto agli obiettivi prefissi.

Non può tuttavia essere trascurato il fatto che gli impianti CCS rientrino certamente tra i progetti concreti che possono essere attuati per contribuire all’abbattimento delle emissioni ai sensi dell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi (cfr. Sez. 4 infra), sebbene la cover decision del Patto di Glasgow chieda di accelerare gli sforzi verso la riduzione graduale dell’utilizzo del carbone come fonte di energia, non accompagnato da tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2.

In un contesto in cui le nazioni maggiormente dipendenti dalle fonti fossili hanno cercato di frenare sul definitivo abbandono dell’utilizzo del carbone laddove non accompagnato da tecnologie CCS e sussidi sui carburanti inquinanti, l’India, con il supporto della Cina, ha, come noto, spuntato, in extremis, un ulteriore depotenziamento del passaggio su carbone nel Patto di Glasgow: da “abbandono” a “riduzione”.

8. Ruolo della finanza per lo sviluppo sostenibile

Nel corso dei lavori della Cop26 è stato ribadito che “ciascuno deve fare la sua parte”. Tale principio trova applicazione anche al mondo della finanza e richiede un significativo impegno degli attori coinvolti per il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità prefissati.

In particolare, gli investitori e le banche devono sostenere e promuovere la realizzazione di progetti imprenditoriali di trasformazione e/o progetti di creazione di valore sostenibile. Questi sono i principi che stannoalla base della finanza sostenibile, in parte regolamentata a livello europeo, attraverso una normativa in corso di definitiva attuazione e perfezionamento (cfr. Direttiva 2014/95/UE in materia di comunicazione di informazioni di carattere non finanziario (Non Financial Disclousure), attuata in Italia nel 2016; Regolamento 2088/2019 “SFDR” e Regolamento 852/2020 “Tassonomia”).

A tal riguardo, come noto, sempre maggiore è il ricorso da parte di imprese e di istituzioni finanziarie all’utilizzo di strumenti che consentono di reperire risorse sul mercato bancario o sul mercato dei capitali di debito da impiegare per il finanziamento o rifinanziamento di progetti green (c.d. green loan e green bond), nonché di strumenti di finanziamento non caratterizzati da uno use of proceeds (a differenza di quelli testé citati) ma da forme di remunerazione dell’indebitamento assunto legate al raggiungimento o meno, in un arco temporale definito, di determinati obiettivi di sostenibili quali, ad esempio, la riduzione di emissioni di anidride carbonica o di quantità di plastiche oggetto di riciclo (c.d. sustainability-linked loan e sustainability-linked bond). Tali strumenti consentono alle imprese di reperire risorse finanziarie presso una più estesa platea di investitori, ivi inclusi quei soggetti le cui politiche di investimento impongono l’impiego di parte della liquidità per il finanziamento di progetti sostenibili.

Nel contesto della Cop26 si è svolto anche il Green Horizon Summit, una serie di incontri nei quali sono stati affrontati i temi legati alle azioni che possano favorire la canalizzazione di capitali verso progetti sostenibili e lo sviluppo da parte delle istituzioni finanziarie di business model sostenibili.

In questo contesto, uno dei dossier più delicati è rimasto quello degli aiuti ai Paesi in via di sviluppo, per finanziare la transizione energetica e per porre rimedio i danni già causati dal cambiamento climatico. In particolare, rispetto ai cento miliardi di dollari l’anno di cui alla promessa fatta nel 2009 dalle economie avanzate, il Patto di Glasgow, oltre a rilevare l’insufficienza dell’impegno economico finora profuso, ha altresì incoraggiato “multilateral development banks, other financial institutions and the private sector to enhance finance mobilization in order to deliver the scale of resources needed to achieve climate plans, particularly for adaptation, and encourages Parties to continue to explore innovative approaches and instruments for mobilizing finance for adaptation from private sources” (cfr. Patto di Glasgow, n. 14).

9. Il contrasto alla deforestazione e la valorizzazione delle comunità locali

Nel corso della Conferenza è stato affrontato con particolare attenzione il tema della deforestazione, che è stato oggetto di numerose discussioni e di significativi impegni assunti dai Paesi e dalle organizzazioni presenti a Glasgow.

Tra le decisioni più rilevanti, deve essere certamente citata la Glasgow Leaders Declaration on Forests and Land Use, con cui oltre 130 leader, che rappresentano oltre il 90% del patrimonio forestale del pianeta, si sono impegnati a perseguire un modello di sviluppo sostenibile che consenta di arrestare e possibilmente di invertire, entro il 2030, il processodi graduale perdita delle foreste e di degrado del territorio che si è accentuato negli ultimi decenni.

Sul fronte dello stanziamento, a breve e medio termine, di risorse direttamente destinate alla tutela forestale, va citato il Global Forest Finance Pledge, con il quale dodici tra i partecipanti alla Glasgow Leaders Declaration on Forests and Land Use, Unione Europea inclusa, si sono impegnati a destinare un importo complessivo di 12 miliardi di dollari (oltre 10,5 miliardi di euro) per interventi sul clima legati alle foreste nel periodo compreso tra il 2021 e il 2025. Tali interventi avranno l’obiettivo primario di supportare e incentivare la partecipazione dei Paesi in via di sviluppo e delle comunità locali in programmi di ripristino dei terreni degradati, di lotta alla perdita del patrimonio forestale e agli incendi boschivi e di promozione dei diritti delle popolazioni indigene e delle stesse comunità locali.

Si segnala altresì il COP26 Congo Basin Joint Donor Statement, ossia l’intesa con cui 10 Paesi, l’Unione Europea e il Bezos Earth Fund (fondo multimiliardario creato dal magnate e filantropo americano Jeff Bezos), si sono impegnati allo stanziamento di almeno 1,5 miliardi di dollari per proteggere la foresta del Bacino del Congo. Ospitando la seconda foresta pluviale tropicale più grande al mondo dopo la foresta amazzonica, il Bacino del Congo costituisce infatti un polmone verde la cui tutela è di cruciale importanza per la conservazione degli ecosistemi forestali e il contrasto al cambiamento climatico.

A testimonianza del ruolo primario che la tutela delle foreste ha ricoperto nel dibattito sviluppatosi in seno alla Cop26, si considerino anche due ulteriori intese finalizzate alla salvaguardia del patrimonio forestale mediante, da un lato, la valorizzazione del contributo delle popolazioni indigene e, dall’altro, l’importanza dell’adozione di modelli di produzione e commercio sostenibile. Con la prima intesa, denominata COP26 IPLC Forest Tenure Joint Donor Statement, Paesi e numerose organizzazioni, riconoscendo il ruolo chiave svolto dalle popolazioni indigene e dalle comunità locali nella protezione delle foreste tropicali e dei relativi ecosistemi, hanno previsto l’investimento complessivo di almeno 1,7 miliardi di dollari per la promozione dei diritti dei popoli indigeni e la tutela della comunità locali nel periodo 2021 – 2025.

La seconda intesa invece, la FACT – Forest, Agriculture and Commodity Trade, ha unito ventotto governi di Paesi che rappresentano il 75% del commercio globale di prodotti e materie prime responsabili della deforestazione (legname, bestiame, cacao, soia e olio di palma), che si sono impegnati a mettere in campo una serie di azioni finalizzate all’adozione di un modello di commercio sempre più sostenibile e alla riduzione dell’impatto negativo delle proprie attività sul patrimonio forestale.

10. Le ripercussioni di carattere sociale del climate change

Nell’ambito della COP26, a fianco alle tematiche di carattere prettamente ambientale, sono stati affrontati a più riprese anche i risvolti sociali che il climate change ha su comunità e territori. Tra i due profili esiste infatti una stretta correlazione[1] che sipuò riassumere nel concetto di “transizione giusta” – ovvero il passaggio verso un’economia climaticamente neutra che non abbia impatti sociali negativi (violazione dei diritti umani, migrazioni, disuguaglianze, etc.).

Tale aspetto ha avuto particolare risalto nel corso della manifestazione, e, in particolare, ha portato alla sottoscrizione di un’apposita dichiarazione denominataSupporting the conditions for a just transition internationallyda parte dell’Unione Europea insieme ad altri quattordici Paesi. Il documentoindividua i sei step considerati necessari per realizzare una transizione giusta: (a) sostegno ai lavoratori nella transizione verso nuovi lavori; (b)promozione del dialogo sociale e coinvolgimento degli stakeholder; (c) sviluppo di strategie economiche a sostegno dell’energia pulita; (d) promozione del lavoro locale, inclusivo e dignitoso; (e) tutela dei diritti umani nelle supply chain a livello globale; (f) rendicontazione con cadenza biennale sugli sforzi per la realizzazione di una transizione giusta.

Nel corso della manifestazione è stato dato notevole risalto anche alle tematiche di gender equality e di empowerment femminile (alle quali è stata dedicata un’intera giornata) che ha portato all’adozione della Gender and climate change Decision; ha avuto un ruolo centrale anche il tema del coinvolgimento delle comunità locali e delle popolazioni indigene che, come espresso nella Local Communities and Indigenous Peoples Platform Decision, risulta essere di particolare importanza per minimizzare gli impatti negativi del cambiamento climatico.

All’interno del documento finale del Patto di Glasgow si è dunque ribadita la necessità di affrontare il fenomeno del climate change tenendo conto dell’impatto che esso riverbera sui diritti umani (diritto alla salute, ad un ambiente sano e salubre, ad una vita dignitosa, etc.) e sui diritti dei soggetti più vulnerabili (popoli indigeni, migranti, donne, bambini e persone con disabilità), sottolineando lo stretto collegamento che sussiste tra i profili ambientali e quelli di carattere sociale. Tutto ciò affinché si realizzi una transizione giusta che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eliminazione della povertà e la creazione di posti di lavoro nel rispetto dei diritti umani.



[1] “è ormai comunemente riconosciuto che le norme sui diritti umani si applichino all’intero spettro delle questioni ambientali, compresi i cambiamenti climatici” Safe Climate: A Report of the Special Rapporteur on Human Rights and the Environment, 1 October 2019, A/74/161, Acknowledgements.


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