La cassazione tenta di “sconfessare” il legislatore – il “nuovo” art. 20 del t.u. sull’imposta di registro sarebbe contrario al dettato costituzionale


Con l’ordinanza interlocutoria n. 23549 del 23 settembre 2019 (l’“Ordinanza”) la Corte di Cassazione, in modo del tutto inaspettato, ha: (i) sospeso l’esame della questione giuridica devoluta al proprio giudizio, i cui fatti di causa risalivano al 2008, e (ii) trasmesso gli atti alla Corte Costituzionale, sollevando questione di legittimità, in rapporto agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dell’art. 20 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (il “T.U.R.”), nella formulazione attualmente vigente, ovvero successiva alle modifiche introdotte dalle ultime due Leggi di bilancio.

L’Ordinanza ha suscitato particolare scalpore in quanto rimette in discussione la controversa applicazione ed interpretazione, da ultimo in senso favorevole al contribuente, dell’art. 20 T.U.R., culminata con un duplice intervento legislativo, dapprima volto a chiarire che l’imposta di registro deve essere applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, prescindendo dagli elementi extratestuali e dagli atti ad esso collegati, e successivamente puntualizzando che tale modifica normativa costituisce interpretazione autentica dell’articolo 20 T.U.R., efficace, quindi, ex tunc.

In attesa che i Giudici delle Leggi si pronuncino, la Corte di Cassazione, con tale ultimo intervento, si mostra strenuamente orientata alla difesa del proprio restrittivo e consolidato indirizzo interpretativo, favorevole alla rilevanza non solo del contenuto proprio dell’atto portato alla registrazione, bensì anche di tutti gli atti allo stesso collegati, giungendo ad affermare il principio della tassazione unitaria di fattispecie giuridiche a c.d. formazione progressiva.

1.      Il lungo dibattito sull’art. 20 T.U.R. e le argomentazioni dei Giudici della Cassazione

Tradizionalmente l’art. 20 T.U.R. risultava una delle disposizioni più controverse dell’ordinamento tributario, sistematicamente utilizzata dall’Amministrazione finanziaria al fine di disconoscere, sul piano fiscale, gli effetti giuridici tipici di certi atti presentati per la registrazione, riqualificandone il contenuto in un più articolato negozio giuridico complessivo, alla luce di altri negozi giuridici posti in essere tra le stesse parti contraenti e/o di elementi fattuali, con conseguente oneroso impatto ai fini della tassazione. Tipico esempio, il conferimento di ramo d’azienda in una società di nuova costituzione e la successiva cessione delle partecipazioni della beneficiaria, sovente riqualificato come cessione indiretta di ramo d’azienda, soggetta ad imposta proporzionale di registro in luogo dell’imposta fissa applicabile agli atti di conferimento di azienda e di cessione di partecipazioni.

In questo contesto, che aveva generato nel corso degli anni una significativa mole di contenzioso, dagli esiti alterni, si inseriscono gli ultimi interventi del Legislatore, diretti a dirimere definitivamente il nodo interpretativo controverso, sconfessando l’approccio restrittivo fino a quel punto tenuto dall’Amministrazione finanziaria, fatto salvo il caso del c.d. abuso del diritto.

Secondo la Corte di Cassazione, invece, l’intervento del Legislatore si porrebbe in palese contrasto con la Carta costituzionale e, in particolare, violerebbe sia il principio di uguaglianza, di cui all’art. 3 che il principio di capacità contributiva, di cui all’art. 53 della Costituzione.

In particolare l’Ordinanza fonda il proprio argomentare sulla prevalente rilevanza, in ambito fiscale, di un immanente principio di “prevalenza della sostanza sulla forma”, già riflesso nelle disposizioni antesignane all’art. 20 T.U.R. del quale quest’ultimo avrebbe tradizionalmente raccolto il testimone (prima delle modifiche da ultimo apportate dal Legislatore). Tanto premesso, i Giudici ritengono

che ai fini della corretta applicazione dell’imposta di registro nulla osti alla “valorizzazione complessiva di elementi interpretativi esterni” nonché di un “collegamento negoziale” in ragione della “convergenza finalistica al perseguimento di una programmata regolazione unitaria di effetti giuridici”.

Sulla base del proprio consolidato indirizzo interpretativo, la Corte di Cassazione afferma che ogni diversa lettura dell’art. 20 T.U.R., e soprattutto la vigente formulazione dello stesso, si pongano in palese contrasto con il principio di capacità contributiva.

Afferma, poi, l’Ordinanza che la presenza di una norma antiabuso generale (i.e. l’art. 10-bis dello Statuto del contribuente), secondo cui si considerano privi di sostanza economica “i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”, consentirebbe all’Amministrazione finanziaria non solo di disconoscere gli effetti di atti tra loro collegati, in quanto abusivi, ma anche di avvalersi di tale approccio “al di fuori del contesto elusivo e sanzionatorio e dunque quando esso emerga sul piano obiettivo della mera qualificazione giuridica”, legittimando, così, la consolidata lettura dell’art. 20 T.U.R. operata dalla Cassazione.

2.      Considerazioni critiche ed effetti potenziali

Le argomentazioni svolte dai Giudici della Cassazione prestano il fianco ad una serie di obiezioni critiche, posto che il dichiarato fine del Legislatore, mediante la novella normativa, era quello di “dirimere alcuni dubbi interpretativi sorti in merito alla portata applicativa dell’articolo 20 del DPR 26 aprile 1986 n.131 (TUR)” ovvero di fornire l’interpretazione autentica della ratio legis, rimasta immutata rispetto alla novella, “al fine di stabilire che detta disposizione deve essere applicata per individuare la tassazione da riservare al singolo atto presentato per la registrazione, prescindendo da elementi interpretativi esterni all’atto stesso (ad esempio, i comportamenti assunti dalle parti), nonché dalle disposizioni contenute in altri negozi giuridici “collegati” con quello da registrare.

La Corte di Cassazione, tuttavia, sembra non tenere in alcun conto quanto precede, riducendo la compatibilità o meno di una disposizione normativa con il dettato costituzionale al prudente apprezzamento che il potere giudiziario ritiene di farne, piuttosto che alla ratio legis ed alla interpretazione autentica della norma stessa.

I Giudici omettono, peraltro, di considerare la radicale differenza tra effetti sostanziali e conseguenza giuridica di negozi differenti, che se ponderate – ad avviso di chi scrive – avrebbero agevolmente consentito di superare l’obiezione circa la presunta violazione del principio di uguaglianza; ciò ove solo si consideri, ad esempio, che un atto di cessione d’azienda integra una pura e semplice compravendita (i.e., cessione di beni contro corrispettivo, ai sensi dell’art. 1470 c.c.) e non comporta alcun effetto sul piano societario, a differenza del conferimento in società (effettuato senza corrispettivo, ma che, al contrario, comporta l’aumento di capitale della società conferitaria e l’acquisizione o il rafforzamento dello status di socio da parte del soggetto conferente) e della cessione di quote societarie (che comporta il trasferimento dello status di socio).  E ancora, si osserva come l’acquirente della partecipazione nella società conferitaria non può essere considerato il proprietario dell’azienda conferita, non potendo il socio esercitare le facoltà inerenti al diritto di proprietà sui beni della società partecipata, così come non sono imputabili al socio stesso gli oneri connessi alla proprietà del bene. In altri termini, situazioni giuridiche differenti legittimano un differente trattamento fiscale, perfettamente compatibile con l’art. 3 della Costituzione.

Tuttavia, nelle more della pronuncia della Consulta, che sarebbe auspicabile giungesse in tempi brevi ma che, con elevato grado di probabilità, non sarà pubblicata prima del prossimo anno, si pongono inevitabilmente profili di incertezza, soprattutto nella prospettiva delle operazioni di futura implementazione, precedentemente “sdoganate” dalla nuova formulazione dell’art. 20 del T.U.R., in considerazione di un dettato normativo la cui legittimità costituzionale risulta ad oggi purtroppo controversa e di un quesito che non tiene in alcun conto il portato giurisprudenziale e di prassi in tema di c.d. legittimo risparmio d’imposta.

Certamente, non si potrà prescindere dall’ordinanza della Corte di Cassazione sia nella fase di strutturazione delle operazioni, sia nel contesto della negoziazione di eventuali indennizzi e manleve con le controparti di volta in volta coinvolte. 

Ad ogni buon conto, per le operazioni poste in essere a partire dal 1 gennaio 2018, ovvero vigente il “nuovo” art. 20 T.U.R., anche nell’eventualità in cui la Corte Costituzionale ritenesse di avallare la lettura della Cassazione e, per l’effetto, dichiarasse l’illegittimità costituzionale, con efficacia ex tunc, di tale norma, è ragionevole ritenere che non potrebbe, in ogni caso, essere legittimamente disconosciuto il principio del legittimo affidamento del contribuente, la cui tutela ha trovato riconoscimento normativo anche all’art. 10 dello Statuto del contribuente, con conseguente non applicabilità quantomeno delle sanzioni tributarie.

Il Dipartimento di Diritto Tributario di Legance è a disposizione per qualsiasi chiarimento ed approfondimento, anche in relazione a fattispecie specifiche.

Per ulteriori informazioni: Claudia Gregori, Luca Dal Cerro, Marco Graziani e Gabriella Geatti oppure il Vostro professionista di riferimento all’interno di Legance.


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