Newsletter Telecommunications, Media & Technology n. 4 del 16 aprile 2018


TLC – TV E MEDIA – INTERNET – SERVIZI IT – NUOVE TECNOLOGIE – RETI E INFRASTRUTTURE

IN QUESTO NUMERO:

1. TLC – ANTITRUST: l’AGCM avvia un sub-procedimento cautelare nell’ambito dell’istruttoria sulla presunta intesa tra operatori relativa alla modifica delle tempistiche di rinnovo e fatturazione delle offerte (provvedimento AGCM 21 marzo 2018, n. 27087).
2. E-COMMERCE – TUTELA DEGLI UTENTI: l’Unione Europea approva il regolamento che introduce il divieto delle pratiche di c.d. geoblocking, che impediscono o limitano la commercializzazione transfrontaliera di beni e servizi in base allo Stato in cui è ubicato il cliente (Regolamento UE 2018/302).
3. SERVIZI IT – GARE PUBBLICHE: il Tar Lazio accoglie il ricorso di un operatore contro l’aggiudicazione della fornitura di apparati IT (unità di backup) ad un’impresa che, a seguito di verificazione tecnica, è stata ritenuta priva dei requisiti tecnici minimi, con conseguente risarcimento alla ricorrente (sentenza Tar Lazio 2552/2018).
4. TLC – INFRASTRUTTURE: il Consiglio di Stato dichiara illegittimo il divieto stabilito da un regolamento comunale di installare apparati di trasmissione radiomobile entro una distanza minima da determinati edifici (sentenza Cons. St. 1592/2018).
5. INTERNET – HOSTING PROVIDER: la Corte d’Appello di Roma chiarisce i limiti della responsabilità di Wikipedia quale mero hosting provider e conferma l’assenza di contenuti diffamatori in relazione ad una biografia pubblicata su Wikipedia (sentenza Corte App. Roma 1065/2018).
6. PUBBLICITÀ – AGCOM: il Tar Lazio conferma l’obbligo di inviare l’Informativa Economica di Sistema all’Agcom anche da parte di Google, in relazione alla sua attività di raccolta pubblicitaria online (sentenza Tar Lazio 1739/2018).
7. INTERNET – RAPPORTI CON GLI UTENTI: la Corte di Giustizia chiarisce la qualificazione di “consumatore” in relazione agli utenti di Facebook, anche con riferimento all’identificazione del luogo in cui avviare un’azione legale (sentenza Corte Giust. 25 gennaio 2018, causa C-498/16 Maximilian Schrems v. Facebook).
8. TLC – ACCESSO AGLI ATTI: il Tar Lazio accoglie parzialmente il ricorso per accesso gli atti di un procedimento Agcom di regolamentazione ex ante (sentenza Tar Lazio 1515/2018).
9. ANTITRUST – PRODUZIONE TV: il Consiglio di Stato ripristina il provvedimento dell’AGCM che aveva accertato e sanzionato un cartello tra imprese nell’ambito delle gare di fornitura di servizi di post-produzione televisiva a favore di RAI (sentenza Cons. St. 1822/2018).
10. TLC – GARE PUBBLICHE: il Consiglio di Stato chiarisce che il mancato rispetto dei requisiti tecnici minimi di una gara pubblica (servizi di connettività) non può costituire un mero errore materiale da rettificare ex post, neanche attraverso soccorso istruttorio (sentenza Cons. St. 1854/2018).

1. TLC – ANTITRUST

L’AGCM avvia un sub-procedimento cautelare nell’ambito dell’istruttoria sulla presunta intesa tra operatori relativa alla modifica delle tempistiche di rinnovo e fatturazione delle offerte (provvedimento AGCM 21 marzo 2018, n. 27087).

Con provvedimento del 7 febbraio 2018, l’AGCM ha avviato un procedimento (I820 Fatturazione Mensile con Aumento Tariffario) al fine di verificare l’esistenza di un presunto accordo anticompetitivo tra i principali operatori di telefonia (anche attraverso la propria associazione di categoria) relativo ad un possibile coordinamento sugli aumenti tariffari legati alla modifica della cadenza di rinnovo e fatturazione delle offerte di telefonia fissa e mobile.

Come noto, a partire dal 2015 diversi operatori TLC hanno modificato la cadenza della fatturazione e del rinnovo delle proprie offerte da mensile a quadrisettimanale (28 giorni). Tale rimodulazione è stata mantenuta anche a seguito della Delibera Agcom 121/17/CONS, la quale aveva stabilito che l’unità temporale per tale cadenza di rinnovo e fatturazione dovesse essere il mese per i contratti di rete fissa (inclusi quelli integrati con altri servizi) e non inferiore a 28 giorni per i contratti di rete mobile. Tale delibera Agcom è stata oggetto di impugnazione da parte di alcuni operatori, respinte in primo grado (ex multis, sentenza Tar Lazio 3258/2018).

Successivamente, mediante l’art 19-quinquiesdecies del D.L. 148/2017, il legislatore ha introdotto uno specifico obbligo per i fornitori di servizi di comunicazioni elettroniche di applicare, indistintamente per i servizi fissi e mobili, una cadenza di rinnovo e fatturazione delle offerte su base mensile.

Con provvedimento n. 27087 del 21 marzo 2018, l’AGCM ha avviato un sub-procedimento cautelare e imposto l’adozione di misure cautelari provvisorie, ordinando agli operatori di “sospendere, nelle more del procedimento, l’attuazione dell’intesa oggetto del procedimento avviato con Delibera del 7 febbraio 2018, concernente la determinazione del repricing comunicato agli utenti in occasione della rimodulazione del ciclo di fatturazione in ottemperanza alla Legge 172/2017, e che, per l’effetto, ogni operatore definisca i termini della propria offerta di servizi in modo indipendente dai concorrenti”.

Tale misura cautelare è stata adottata poiché, secondo l’AGCM, la documentazione acquisita in sede ispettiva avrebbe confermato l’esistenza di una concertazione tra gli operatori, anche in relazione alla scelta di applicare, contestualmente al ritorno alla fatturazione mensile (anziché quadrisettimanale), un aumento dei prezzi mensili pari all’8,6%, ossia della misura che consentiva di mantenere invariata la spesa annuale dell’utente in considerazione della riduzione dei rinnovi da 13 a 12.
Nell’ottica dell’AGCM, tale intervento cautelare avrebbe la finalità di evitare che, attraverso l’applicazione di tale aumento delle tariffe mensili pari all’8,6%, l’attuazione della presunta intesa tra operatori consolidi i propri effetti, limitando in maniera significativa la facoltà di scelta degli utenti.

Si tratta del primo provvedimento cautelare adottato dall’AGCM nell’ambito di un procedimento di intesa (le precedenti misure cautelari hanno riguardato casi di abuso di posizione dominante) e, anche per questo motivo, la sua applicazione pone alcuni dubbi e incertezze. In particolare, la previsione secondo cui “ogni operatore definisca i termini della propria offerta di servizi in modo indipendente dai concorrentiappare molto generica, anche in relazione alle condotte richieste ai soggetti destinatari dell’ordine. Nel caso di specie, infatti, l’ipotesi sostenuta dall’AGCM – ossia che la presunta intesa avrebbe ad oggetto l’applicazione dell’aumento delle tariffe pari all’8,6% – non esclude che, anche sulla base di un’autonoma scelta commerciale, uno o più operatori decidano comunque di confermare l’aumento tariffario in questione. Tale difficoltà di identificare chiare modalità attuative della misura cautelare solleva il rischio che quest’ultima risulti caratterizzata da una portata applicativa non sufficientemente determinata, requisito che invece appare di particolare importanza soprattutto nella fase cautelare del procedimento, anche con riferimento alla verifica della corretta esecuzione della misura da parte degli operatori.

Per queste ragioni, sebbene vi possano essere dubbi sul fatto che una misura cautelare formulata in maniera così generica risponda ai requisiti di legge (art. 14-bis Legge 287/1990), l’obiettivo principale dell’ordine imposto dall’AGCM sembra piuttosto quello – più fattuale che giuridico – di indurre gli operatori a rivalutare la propria scelta di applicare il suddetto aumento tariffario.

A questo proposito, già pochi giorni dopo l’adozione dell’ordine cautelare dell’AGCM, diversi operatori hanno annunciato significative modifiche agli aumenti già pianificati, realizzando perciò quella differenziazione delle proprie scelte commerciali che, di fatto, sembra costituire l’obiettivo dell’AGCM. Dunque, considerando che l’ordine cautelare è stato adottato inaudita altera parte (essendo perciò soggetto ad una sua successiva rivalutazione nell’ambito del sub-procedimento cautelare, anche alla luce della posizione esposta dagli operatori attraverso memorie e audizioni), qualora l’AGCM dovesse riconoscere la rilevanza delle modifiche effettuate dagli operatori, non è escluso che la stessa AGCM concluda il sub-procedimento revocando l’ordine cautelare già adottato.

2. E-COMMERCE – TUTELA DEGLI UTENTI

L’Unione Europea approva il regolamento che introduce il divieto delle pratiche di c.d. geoblocking, che impediscono o limitano la commercializzazione transfrontaliera di beni e servizi in base allo Stato in cui è ubicato il cliente (Regolamento UE 2018/302).

Con Regolamento UE 2018/302, l’Unione Europea ha introdotto una serie di misure dirette a vietare le attività di c.d. geoblocking, ossia quelle pratiche attraverso cui le imprese effettuano limitazioni e blocchi nella vendita di beni e servizi commercializzati (soprattutto online) a livello transnazionale, imponendo condizioni differenziate in base all’ubicazione del cliente. L’UE ha deciso di vietare queste pratiche in quanto pongono in essere una ingiustificata discriminazione basata sulla nazionalità, sul luogo di residenza o sul luogo di stabilimento dei clienti.

Il Regolamento 2018/302 si applica alle transazioni transfrontaliere aventi ad oggetto l’offerta di beni o servizi da parte di un’impresa stabilita nell’UE o in un Paese terzo a favore di (i) consumatori residenti o stabiliti all’interno dell’UE, e (ii) imprese che acquistano i beni o servizi “al fine esclusivo dell’uso finale”. Restano invece esclusi dall’applicazione del Regolamento i contenuti coperti da copyright e la vendita di opere protette dal diritto d’autore in forma immateriale (ad esempio, servizi di streaming musicale, e-book, giochi online, software, etc.), i servizi audiovisivi, e gli altri servizi già esclusi dall’applicazione della Direttiva Servizi 2006/123/CE (ad esempio servizi finanziari, di trasporto, audiovisivi, sanitari, sociali, etc.).

Il Regolamento 2018/302 stabilisce tre principali tipologie di divieti.

1. Divieto da parte dell’impresa di bloccare o limitare l’accesso del cliente alla propria “interfaccia online” (intesa come sito Internet, applicazione mobile o altro software che consente l’accesso a beni o servizi dell’impresa, al fine di effettuare una transazione su tali beni o servizi) in ragione della nazionalità, luogo di residenza o luogo di stabilimento del cliente. Tale divieto comprende anche il re-indirizzamento del cliente ad una versione diversa della “interfaccia online”, destinata a clienti di una particolare nazionalità, residenza o stabilimento, a meno che il cliente non vi abbia esplicitamente acconsentito. Il divieto in questione non si applica invece qualora il blocco, limitazione o re-indirizzamento sia necessario per garantire il rispetto di un “requisito giuridico” previsto dall’UE o dagli Stati Membri.

2. Divieto da parte dell’impresa di applicare condizioni generali relative all’offerta di beni e servizi che siano discriminatorie per ragioni legate alla nazionalità, al luogo di residenza o al luogo di stabilimento di un cliente, qualora quest’ultimo intenda:
a) acquistare beni consegnati in un luogo di uno Stato Membro in cui l’impresa ne offra la consegna o che sono ritirati dal cliente in un luogo concordato tra impresa e cliente;
b) ricevere da un professionista servizi tramite mezzi elettronici, ad esempio online (ad esclusione dei servizi di accesso a opere tutelate dal diritto d’autore e altri beni protetti);
c) ricevere servizi in un luogo fisico nel territorio di uno Stato Membro in cui il professionista esercita la sua attività (ad esempio, manifestazioni sportive, soggiorni in hotel, etc.).

Tale divieto non impedisce comunque di applicare condizioni generali (anche con riferimento ai prezzi di vendita) differenti tra Stati Membri o all’interno di uno Stato Membro e che siano offerte ai clienti in un territorio specifico o a gruppi specifici di clienti, purché ciò avvenga senza discriminare i clienti sulla base della loro nazionalità, residenza o stabilimento.

3. Divieto da parte dell’impresa di applicare condizioni relative all’utilizzo dei mezzi di pagamento che risultino discriminatorie (e, quindi, ingiustificatamente differenziate) in ragione della nazionalità, residenza o stabilimento del cliente, dell’ubicazione del conto di pagamento, del luogo di stabilimento del prestatore dei servizi di pagamento, o del luogo di emissione dello strumento di pagamento. Tale divieto riguarda, in particolare, le operazioni di pagamento attraverso transazioni elettroniche e quelle effettuate in una valuta accettata dall’impresa.

Il Regolamento 2018/302 chiarisce inoltre che esso non preclude l’applicazione del divieto di intese anticoncorrenziali ai sensi dell’art. 101 TFUE e del Regolamento n. 330/2010/CE di esenzione degli accordi verticali, anche con riferimento alla possibilità di prevedere limitazioni alle vendite attive nei confronti dei rivenditori. Per quanto riguarda il divieto di vendite passive (quelle che cioè sono effettuate senza sollecitare il cliente), invece, il Regolamento 2018/302 dispone che gli accordi comprendenti un tale divieto unitamente ad altri divieti di cui al regolamento in esame sono di per sé nulli.

Il Regolamento 2018/302 è direttamente applicabile (a partire dal 3 dicembre 2018) e, ai fini della sua esecuzione, è previsto che ciascuno Stato Membro: (i) designi uno o più organismi responsabili dell’attuazione del Regolamento; (ii) definisca le misure applicabili in caso di violazione del Regolamento; (iii) designi uno o più organismi competenti a fornire “assistenza pratica ai consumatori” in caso di controversie derivanti dall’applicazione del Regolamento.

3. SERVIZI IT – GARE PUBBLICHE

Il Tar Lazio accoglie il ricorso di un operatore contro l’aggiudicazione della fornitura di apparati IT (unità di backup) ad un’impresa che, a seguito di verificazione tecnica, è stata ritenuta priva dei requisiti tecnici minimi, con conseguente risarcimento alla ricorrente (sentenza Tar Lazio 2552/2018).

Con sentenza 6 marzo 2018, n. 2552, il Tar Lazio ha accolto il ricorso di TIM contro gli atti della gara svolta dal Ministero della Giustizia per l’acquisito di alcuni apparati e sistemi IT (unità di storage per servizi di backup) in quanto, a seguito di una verificazione tecnica svolta in giudizio, era emerso che il sistema di backup offerto dall’aggiudicataria non era conforme ai requisiti tecnici previsti dal bando di gara.

In particolare, la verificazione tecnica disposta dal Collegio aveva accertato che le offerte presentate dall’aggiudicataria e dalla seconda classificata non rispondevano ad alcuni requisiti tecnici richiesti dal capitolato tecnico (riguardanti le modalità di deduplicazione dei dati alla sorgente oggetto di backup). Di conseguenza, secondo il Tar, le due società avrebbero dovuto essere escluse dalla gara. Da qui l’annullamento degli atti di gara oggetto di impugnazione.

Si evidenzia come il Collegio abbia respinto la preliminare eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dall’impresa aggiudicataria, la quale aveva sostenuto che il ricorso era diretto a censurare valutazioni di natura tecnica espresse dalla commissione di gara, quindi insindacabili dal giudice amministrativo. Tale eccezione è stata respinta dal Tar poiché le censure oggetto del ricorso attengono “non tanto all’esercizio del potere discrezionale esercitato dall’amministrazione nell’ambito di una attività di “valutazione” delle offerte finalizzata all’attribuzione di un dato punteggio […], quanto alla contestazione di profili meramente accertativi della sussistenza o meno di determinati requisiti aventi natura tecnica”. Dunque, trattandosi di censure relative a valutazioni amministrative a basso tasso di opinabilità, è consentito un controllo giurisdizionale, da effettuarsi in giudizio anche attraverso C.T.U. o verificazione.

Il Tar Lazio ha anche accolto la domanda di risarcimento per equivalente proposta da TIM, dal momento che il vizio degli atti di gara, concernente la mancata esclusione delle altre due imprese partecipanti, consentiva di ritenere con certezza che l’appalto avrebbe dovuto essere assegnato alla ricorrente.

In relazione alla sussistenza dell’elemento soggettivo, il Tar ha richiamato il consolidato orientamento secondo cui “in materia di risarcimento dei danni da mancato affidamento di gare pubbliche di appalto, non è necessario provare la colpa dell’Amministrazione poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività previsto dalla normativa comunitaria”.

Il risarcimento è stato quantificato limitatamente al mancato utile che la ricorrente avrebbe ricavato dall’aggiudicazione, rappresentato dalla differenza tra l’offerta presentata in gara e il costo dei beni e dei relativi servizi oggetto della fornitura (Euro 65.757). Da tale importo, il Collegio ha inoltre detratto una somma forfettaria (Euro 25.000) a titolo del c.d. aliunde perceptum, giungendo a liquidare un importo finale di Euro 40.757, oltre rivalutazione monetaria secondo indici Istat e interessi legali dalla data di deposito della sentenza.

È stata invece respinta la domanda di risarcimento del danno c.d. curricolare e del danno all’immagine, in quanto priva di adeguata dimostrazione.

4. TLC – INFRASTRUTTURE

Il Consiglio di Stato dichiara illegittimo il divieto stabilito da un regolamento comunale di installare apparati di trasmissione radiomobile entro una distanza minima da determinati edifici (sentenza Cons. St. 1592/2018).

Con sentenza 13 marzo 2018, n. 1592, in accoglimento dell’appello di WindTre S.p.A., il Consiglio di Stato ha annullato sia il provvedimento di diniego da parte del Comune di Anguillara Sabazia all’installazione di un impianto di trasmissione radiomobile, sia il presupposto regolamento comunale nella parte in cui stabiliva determinate distanze minime da alcuni edifici sensibili entro cui installare gli impianti. In particolare, tale regolamento poneva il divieto di “installazioni in prossimità (raggio di 300 mt.) e sopra edifici scolatici, a destinazione sanitaria–residenziale, nonché strutture di accoglienza socio assistenziali, asili nido parchi gioco, impianti sportivi adiacenti alle scuole, strutture che accolgono minori nonché edifici vincolati ai sensi della normativa vigente classificati di interesse storico architettonico e monumentale, di pregio storico e di valore testimoniale”.

Tale previsione è stata ritenuta illegittima in quanto, secondo il Consiglio di Stato, il limite di 300 metri è stabilito in maniera generalizzata, anziché puntuale e circoscritta, ed è perciò da considerarsi “assolutamente generico, risolvendosi nell’illogicità dello stesso. In particolare, la sentenza sottolinea come l’illogicità di questo divieto emerga soprattutto dal fatto che esso è applicabile ad un numero particolarmente elevato di edifici e, inoltre, assimila siti tra loro differenti (ad esempio, scuole e immobili di pregio storico).

Il Consiglio di Stato conclude perciò affermando che “le prescrizioni comunali in esame integrano delle limitazioni alla localizzazione, consistenti in criteri distanziali generici ed eterogenei – ovvero, prescrizione di distanze minime, da rispettare nell’installazione degli impianti, dal perimetro esterno di una pluralità eterogena di edifici – già reputate illegittime dalla giurisprudenza di questo Consiglio”.

Il Consiglio di Stato ha inoltre sottolineato come la valutazione sul rispetto dei limiti delle emissioni elettromagnetiche è in ogni caso effettuata dall’ARPA. Tale riferimento, sebbene non sia stato oggetto di approfondimento, potrebbe essere inteso come una circostanza che limita in maniera rilevante la legittimità dei divieti generalizzati che talvolta sono posti dalle amministrazioni comunali all’installazione degli impianti trasmissivi per presunta protezione di alcune aree o edifici dalle emissioni elettromagnetiche: anche in questi casi, infatti, i divieti preventivi dovrebbero pur sempre essere esaminati alla luce della protezione che già deriva dall’applicazione dei limiti alle emissioni e dai relativi controlli svolti, anche in via preventiva, dalla competente ARPA.

La sentenza in esame è di particolare importanza anche perché, sulla questione delle distanze minime da certi edifici per l’installazione di impianti di telecomunicazioni, si riscontrano, soprattutto a livello di TAR regionali, indirizzi non sempre coerenti tra loro. In particolare, con una serie di recenti pronunce del Tar Lazio (ex multis, sentenze nn. 10301/2017, 10354/2017 e 11346/2017) fondate su argomentazioni che non appaiono del tutto in linea con la pronuncia del Consiglio di Stato in esame, è stato ritenuto legittimo il Regolamento di Roma Capitale n. 26 del 14 maggio 2015 anche in relazione al divieto di installare impianti radiomobili entro una distanza minime da alcuni edifici sensibili.

5. INTERNET – HOSTING PROVIDER

La Corte d’Appello di Roma chiarisce i limiti della responsabilità di Wikipedia quale mero hosting provider e conferma l’assenza di contenuti diffamatori in relazione ad una biografia pubblicata su Wikipedia (sentenza Corte App. Roma 1065/2018).

La sentenza della Corte d’Appello di Roma 19 febbraio 2018, n. 1065 ha ad un oggetto la richiesta da parte dell’ex deputato Cesare Previti nei confronti di Wikimedia Foundation Inc. (gestore dell’enciclopedia online Wikipedia) di rimuovere alcune parti della propria biografia presenti sul sito di Wikipedia, in quanto ritenute false e diffamatorie, nonché a condannare Wikimedia al risarcimento dei danni subiti. Al termine del giudizio di primo grado, con ordinanza del 20 giugno 2013, il Tribunale di Roma aveva respinto le domande della parte attrice e ritenuto insussistente la responsabilità in capo a Wikimedia, sottolineando come quest’ultima, nella gestione dell’enciclopedia Wikipedia, svolga funzioni di mero hosting provider, limitandosi quindi a offrire ospitalità sui propri server alle informazioni fomite dagli utenti.

La Corte d’Appello ha confermato l’impianto motivazionale della sentenza di primo grado. In primo luogo, la sentenza ribadisce che l’attività svolta da Wikimedia è da qualificarsi come hosting provider (e non già fornitura di contenuti), ossia come un servizio consistente nella memorizzazione sui propri server di informazioni fornite dagli utenti, in analogia con la disciplina dell’Internet Service Provider di cui alla Direttiva 2000/31/CE (recepita in Italia dal D.Lgs. 70/2003) che, pur non essendo applicabile al caso di specie, secondo la Corte fornisce le direttrici giuridiche di riferimento per l’inquadramento della fattispecie.

A tale riguardo, in linea con i precedenti giurisprudenziali in materia (Trib. Napoli 3 novembre 2016, Corte App. Milano 21 dicembre 2012, Trib. Roma 9 luglio 2014), la Corte ha sottolineato l’insussistenza in capo all’hosting provider sia di un generale obbligo di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite sulla propria piattaforma, sia di qualsiasi posizione di garanzia o di responsabilità oggettiva.

La responsabilità del provider è invece sussistente qualora esso sia venuto effettivamente a conoscenza dell’illiceità dell’informazioni pubblicate e non si sia attivato per rimuoverle e impedirne l’ulteriore diffusione. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che neanche tale responsabilità fosse configurabile poiché il sito Wikipedia prevede un meccanismo di rettifica e/o rimozione dei contenuti immessi dagli utenti all’esito di una specifica procedura che, tuttavia, non era stata attivata dall’appellante. Da questo punto di vista, non sono state considerate rilevanti le diffide inviate dall’appellante recanti generiche contestazioni di diffamazione, in quanto prive dell’indicazione delle singole affermazioni ritenute non veritiere, delle ragioni dell’asserita falsità e delle modifiche richieste. Anche su tale aspetto, la giurisprudenza conferma che generiche comunicazioni sull’asserita illeceità dei contenuti non sono sufficienti a ingenerare nel provider quella “conoscenza effettiva” da cui scaturisce un obbligo di intervento che, per gli Internet Service Provider, è espressamente previsto dall’art. 16 D.Lgs. 70/2003 (ex multis, Trib. Milano 25 marzo 2013).

La sentenza in esame, inoltre, ha confermato che la presenza delle informazioni riportate sulla home page del sito Wikipedia, contenenti il riferimento ad un’attività di gestione da parte di Wikimedia, non sono idonee a supportare la presunta responsabilità di quest’ultima rispetto ai contenuti pubblicati su Wikipedia. Secondo la Corte, infatti, tale enunciazione è generica e priva di alcuna valenza confessoria, essendo invece accertato che Wikimedia offre uno spazio virtuale consistente in un’infrastruttura telematica su cui gli utenti possono pubblicare i contenuti nel rispetto delle regole del servizio, ma senza l’intervento di alcun comitato di redazione o controllo preventivo da parte di Wikimedia.

Infine, a differenza del giudice di primo grado, la Corte d’Appello ha esaminato anche i contenuti della biografia contestata, negandone alcuna natura diffamatoria, dal momento che le presunte informazioni incomplete e scorrette si basano in realtà su numerose fonti, comprese sentenze passate in giudicato, peraltro indicate nella stessa pagina web. Inoltre, è stato ritenuto insussistente anche l’elemento psicologico della presunta diffamazione, ossia la coscienza e volontà da parte di Wikimedia di danneggiare l’appellante.

6. PUBBLICITÀ – AGCOM

Il Tar Lazio conferma l’obbligo di inviare l’Informativa Economica di Sistema all’Agcom anche da parte di Google, in relazione alla sua attività di raccolta pubblicitaria online (sentenza Tar Lazio 1739/2018).

Con sentenza 14 febbraio 2018, n. 1739, il Tar Lazio ha respinto il ricorso di Google contro la Delibera Agcom 397/13/CONS, avente ad oggetto le modalità di invio dell’Informativa Economica di Sistema (IES), nella parte in cui essa ha esteso l’obbligo di compilare e inviare la IES anche alle concessionarie di pubblicità attive sul web e alle società aventi sede all’estero. Si ricorda che, attraverso la IES, le imprese che rientrano nel Sistema Integrato delle Comunicazioni (SIC) forniscono annualmente all’Agcom una serie di dati finanziari e contabili attraverso cui la stessa Agcom, tra l’altro, provvede a verificare l’esistenza di posizioni dominanti nel SIC.

Le conclusioni a cui è giunto il Tar Lazio sono di particolare interesse poiché, oltre a riguardare la situazione di Google, sono suscettibili di un’applicazione ben più ampia, ad esempio in relazione alle attività online e/o ai servizi audiovisivi forniti nel mercato italiano da imprese estere.

In primo luogo, con riferimento alla base giuridica dell’estensione dell’obbligo di comunicare la IES anche da parte di concessionarie di pubblicità sul web, il Tar Lazio sottolinea la necessità di una “interpretazione adeguatrice e finalistica delle norme, ciò che risulta coerente con tutta una serie di previsioni, nazionali e comunitarie che, in più campi, equiparano le attività svolte sul web a quelle più tradizionali nel campo delle comunicazioni”. Si tratta, dunque, di una posizione diretta a previlegiare un’interpretazione estensiva delle norme al fine di adeguarle a beni, servizi e attività imprenditoriali che, essendo il frutto della sempre più rapida evoluzione tecnologica, non sempre ricadono nella rigorosa applicazione di norme interne che, al contrario, faticano a mantenere il passo di tale evoluzione di beni e servizi.

Per quanto riguarda l’obbligo di presentare la IES anche da parte di imprese aventi sede all’estero, la sentenza 1739/2018 chiarisce che la funzione della IES (nonché del SIC) quale strumento per verificare il rispetto del principio del pluralismo rende indifferente, ai fini dell’obbligo di comunicazione, il fatto che la sede legale di un’impresa si trovi o meno in Italia, fermo restando che la comunicazione debba riguardare i soli ricavi prodotti in Italia.

Meno rigorosa appare la posizione del Tar in merito al fatto che, ai sensi dell’art. 1-bis TUSMAR, l’ambito di applicazione dello stesso TUSMAR è delimitato, tra l’altro, ad operatori “stabiliti” in Italia. Secondo il Collegio, a prescindere da tale norma, l’estensione dell’obbligo di comunicare la IES troverebbe comunque fondamento nell’art. 1, comma 28, Legge 650/1996, che non prevede alcuna esclusione per operatori non aventi sede legale in Italia. Tale mancata analisi dell’art. 1-bis TUSMAR, dunque, appare una “occasione persa” per chiarire l’effettiva portata applicativa di tale disposizione, soprattutto in relazione ad un aspetto cruciale per l’attuale contesto regolamentare, ossia se – e in che termini – le società che forniscono servizi a utenti italiani (soprattutto via web) pur non essendo stabilite in Italia sono soggette all’applicazione delle norme interne del TUSMAR e dei provvedimenti attuativi dell’Agcom e dei Ministeri competenti.

Su tale aspetto, appare comunque di rilievo la precisazione del Tar Lazio secondo cui “la diversa opzione ermeneutica proposta in ricorso, del resto, si presterebbe a comportamenti elusivi, tali da rendere impossibile la specifica attività dell’Autorità in materia di tutela del pluralismo”; tale inciso, infatti, appare idoneo a supportare un’interpretazione estensiva dell’ambito applicativo del TUSMAR, peraltro in linea con le altre statuizioni della pronuncia in esame.

Maggiori chiarimenti avrebbero potuto essere forniti dalla Corte di Giustizia, a cui il Tar aveva rinviato in via pregiudiziale le questioni oggetto del giudizio; tuttavia, la Corte ha dichiarato irricevibile la domanda pregiudiziale per mancanza di sufficienti indicazioni sul giudizio principale e sulle ragioni che giustificavano la necessità di una risposta alla questione pregiudiziale (ordinanza 8 settembre 2016, causa C-322/15 Google Ireland e Google Italy).

La sentenza in esame, inoltre, ha respinto la censura di Google relativa alla presunta eccessiva gravosità delle attività necessarie a compilare la IES, che richiederebbero una complessa riscrittura del bilancio al fine di adattarlo alla prescrizioni nazionali. Secondo il Tar Lazio, infatti, tale difficoltà tecnica e il presunto elevato costo economico da sostenere sono rimasti privi di effettiva dimostrazione.

7. INTERNET – RAPPORTI CON GLI UTENTI

La Corte di Giustizia chiarisce la qualificazione di “consumatore” in relazione agli utenti di Facebook, anche con riferimento all’identificazione del luogo in cui avviare un’azione legale (sentenza Corte Giust. 25 gennaio 2018, causa C-498/16 Maximilian Schrems v. Facebook).

La sentenza della Corte di Giustizia 25 gennaio 2018, causa C-498/16 Maximilian Schrems v. Facebook, è intervenuta a chiarire i limiti entro i quali un utente di una piattaforma digitale come Facebook possa essere qualificato come “consumatore” e, quindi, tutelare i propri diritti in sede giudiziale dinanzi al foro del consumatore, ossia nel luogo in cui esso è domiciliato. Tale sentenza in via pregiudiziale ha esaminato la questione sulla base del previgente Regolamento CE 44/2001 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, ma le stesse conclusioni appaiono applicabili anche alla luce del vigente Regolamento UE 1215/2012, che non ha apportato significative modifiche alle norme esaminate dalla Corte di Giustizia.

La fattispecie oggetto del giudizio a quo riguardava un cittadino austriaco che aveva citato Facebook dinanzi ad un giudice del proprio Paese per presunte violazioni delle norme in materia di protezione dei dati del proprio account. Secondo il ricorrente, quest’azione era stata incardinata dinanzi al foro del consumatore nel proprio Stato di residenza, in ragione dell’art. 16, comma 1, del Regolamento CE 44/2001. Facebook, invece, ha eccepito il difetto di giurisdizione della corte austriaca, evidenziando che il ricorrente utilizzava Facebook anche a fini professionali (per promuovere le proprie attività di contestazione di alcune pratiche di gestione dei dati da parte della stessa Facebook) e non era perciò qualificabile come “consumatore”.

La questione è stata quindi rinviata alla Corte di Giustizia. Quest’ultima, in termini generali, ha chiarito che un utilizzatore dei servizi di una piattaforma digitale possa invocare la qualità di consumatore soltanto se l’uso di tali servizi resti essenzialmente non professionale e non acquisisca, anche nel corso del tempo, un carattere professionale.

Con riferimento al caso di specie, la Corte ha ritenuto che l’utilizzatore di un account Facebook privato non perde la qualità di “consumatore” allorché, come nel caso del ricorrente austriaco, tale utente svolga attività connesse alla tutela di diritti (peraltro, in relazione alle condotte della stessa Facebook) quali pubblicazione di libri, gestione di siti Internet, raccolta di donazioni.

Da questo punto di vista, infatti, la nozione di “consumatore” prescinde dalle conoscenze o dalle informazioni di cui una persona realmente dispone e, quindi, non viene meno alla luce delle competenze che tale persona possa acquisire in un determinato settore, e del suo impegno ai fini della rappresentanza dei diritti e degli interessi degli utilizzatori di tali servizi.

Di conseguenza, l’utente in questione, qualificandosi come “consumatore” ai sensi dell’art. 15 del Regolamento CE 44/2001, poteva legittimamente avviare l’azione contro Facebook nel proprio foro del consumatore che, ai sensi dell’art. 16 del medesimo Regolamento, può essere identificato anche nel luogo in cui è domiciliato il consumatore stesso.

Per contro, la sentenza C-498/165 ha statuito che il foro del consumatore non può essere invocato per l’azione di un consumatore diretta a far valere, dinanzi al giudice del luogo in cui esso è domiciliato, non soltanto diritti propri, ma anche diritti ceduti da altri consumatori, domiciliati nello stesso Stato Membro o in altri Stati. Secondo la Corte, infatti, la competenza degli organi giurisdizionali diversi da quelli previsti dal Regolamento 44/2001 non può trovare fondamento nella concentrazione di più diritti in capo ad un solo ricorrente.

8. TLC – ACCESSO AGLI ATTI

Il Tar Lazio accoglie parzialmente il ricorso per accesso gli atti di un procedimento Agcom di regolamentazione ex ante (sentenza Tar Lazio 1515/2018).

Il Tar Lazio, con sentenza 8 febbraio 2018, n. 1515, ha accolto parzialmente un ricorso per accesso agli atti da parte di Fastweb contro il diniego opposto da Agcom di accedere ad alcuni documenti contenuti nel fascicolo del procedimento concluso con Delibera 78/17/CONS (relativa all’approvazione delle condizioni di offerta dei servizi bitstream e VULA per il 2015 e 2016).

Si tratta di una pronuncia che si pone in linea di continuità con i precedenti del Tar Lazio (sentenza 13030/2015) e del Consiglio di Stato (sentenze 2772/2015 e 254/2016) che, in materia di accesso agli atti dei procedimenti regolatori dell’Agcom, nel complesso bilanciamento tra le esigenze di trasparenza sull’attività amministrativa e quelle di confidenzialità degli atti, hanno riconosciuto una certa prevalenza alle prime rispetto alle seconde (ferma restando la necessità di svolgere un’analisi basata in concreto sugli atti a cui si richiede accesso).

In primo luogo, il Tar ribadisce chiaramente che un’impresa soggetta agli effetti di un provvedimento regolatorio è titolare dell’interesse a conoscere i relativi atti: “la qualità di soggetto inciso da un atto regolatorio, che comporta per lo stesso delle voci di costo, integra in maniera sufficientemente determinata, l’interesse “diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accessoa conoscere gli atti del procedimento istruttorio all’esito del quale il provvedimento è stato emanato”.

Con riferimento al rapporto tra l’interesse dell’impresa alla trasparenza e le esigenze di riservatezza che possono escludere l’accesso ai singoli documenti, il Collegio richiama, almeno in via generale, “la prevalenza delle esigenze di trasparenza rispetto a quelle di riservatezza in fattispecie analoghe

Sulla base di tali coordinate interpretative, il Tar ha esamin.ato i singoli documenti a cui l’Agcom aveva negato accesso alla ricorrente giungendo, tra l’altro, alle seguenti conclusioni:
– non sono stati ritenuti confidenziali (e quindi sono stati resi accessibili) i dati relativi al mero costo degli apparati di interconnessione per erogare i servizi ad altri operatori;
– il fatto che le informazioni di cui si chiede accesso siano state pubblicate nel provvedimento finale fa venire meno l’esigenza di riservatezza, residuando tuttavia l’interesse dell’impresa richiedente all’ostensione per verificare la completezza dell’istruttoria;
– è stato negato l’accesso ad alcuni dati della contabilità regolatoria di TIM, in quanto riguardanti aspetti commerciali, contabili e finanziari che potrebbero rivelare strategie commerciali, dinamiche dei processi decisionali interni e investimenti sostenuti, favorendo in questo modo altri operatori concorrenti.

9. ANTITRUST – PRODUZIONE TV

Il Consiglio di Stato ripristina il provvedimento dell’AGCM che aveva accertato e sanzionato un cartello tra imprese nell’ambito delle gare di fornitura di servizi di post-produzione televisiva a favore di RAI (sentenza Cons. St. 1822/2018).

La sentenza del Consiglio di Stato 21 marzo 2018, n. 1822, in accoglimento dell’appello presentato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), ha annullato la sentenza Tar Lazio 6475/2017 e ripristinato integralmente la decisione AGCM del 27 maggio 2015 nel procedimento I771 Servizi di Post-produzione di Programmi Televisivi RAI. Con questo provvedimento, l’AGCM aveva accertato e sanzionato un’intesa tra imprese avente ad oggetto il coordinamento delle politiche di offerta nell’ambito delle procedure selettive indette dalla RAI per la fornitura dei servizi di post-produzione televisiva, con l’obiettivo di aumentare il livello dei prezzi praticato. Secondo l’AGCM, tale coordinamento era stato realizzato mediante l’indirizzamento da parte dell’associazione di categoria dei prezzi da praticare, lo scambio di informazioni relativo alle condizioni commerciali applicate, e il coordinamento diretto tra le imprese nell’ambito di alcune gare.

La sentenza Tar Lazio 6475/2017 aveva annullato il provvedimento AGCM ritenendo che le evidenze raccolte dall’AGCM non fornissero un’adeguata prova dell’intesa e, inoltre, trovavano logiche giustificazioni imprenditoriali.

Il Consiglio di Stato, invece, ha ribaltato questa impostazione, sottolineando che “le singole condotte delle imprese vanno valutate tenendo conto del quadro complessivo e non in modo atomistico”. A tale riguardo, la sentenza richiama il consolidato orientamento per cui, in un procedimento di cartello, le evidenze della collusione sono di norma ridotte e frammentarie, dovendosi perciò inferire l’esistenza del cartello da elementi indiziari che, in mancanza di giustificazioni coerenti, forniscono la prova della violazione.

Nel caso di specie, il Consiglio di Stato ha ritenuto che l’AGCM avesse correttamente dedotto la prova della collusione tra imprese dai seguenti elementi, valutati nel loro complesso: lettere anonime ricevute da RAI che anticipavano i vincitori e i prezzi praticati in alcune gare, scambio di informazioni aventi ad oggetto i prezzi praticati nell’ambito delle gare, svolgimento di due riunioni per discutere il livello dei prezzi praticati nei confronti di RAI, dichiarazioni confessorie rese da un’impresa coinvolta nel cartello.

La sentenza, inoltre, ha sottolineato che la natura strategica dei dati scambiati non è contradetta dal fatto che gli stessi siano riferiti a comportamenti di prezzo storici, valendo in senso opposto una serie di ulteriori ragioni, ossia: il fatto che anche un dato storico può fungere da indicazione di prezzo futuro (se accompagnato dall’invito a non discostarsi dallo stesso o a tenerlo comunque in considerazione), e il fatto che si tratta di informazioni relative a transazioni recenti, in grado quindi di rivelare l’attuale condotta di prezzo dei concorrenti.

Infine, il Consiglio di Stato ha ribadito che la concertazione tra imprese non può trovare alcuna giustificazione nello stato di crisi del settore, né in presunti “abusi di mercato” della RAI che costringevano le imprese a operare sottocosto, dal momento che eventuali condotte di questo tipo devono pur sempre essere eventualmente perseguite con gli strumenti previsti dall’ordinamento.

10. TLC – GARE PUBBLICHE

Il Consiglio di Stato chiarisce che il mancato rispetto dei requisiti tecnici minimi di una gara pubblica (servizi di connettività) non può costituire un mero errore materiale da rettificare ex post, neanche attraverso soccorso istruttorio (sentenza Cons. St. 1854/2018).

La sentenza del Consiglio di Stato 23 marzo 2018, n. 1854 ha respinto il ricorso di un operatore di telefonia contro gli atti di una gara bandita da un Comune per l’aggiudicazione dei servizi di connettività e trasmissione dati in fibra ottica, in cui la ricorrente era stata esclusa per avere indicato nella domanda di partecipazione alcune caratteristiche dell’offerta difformi rispetto a quanto indicato dai requisiti tecnici essenziali stabiliti dal bando di gara. In particolare, quest’ultimo aveva previsto che, in alcune sedi comunali, i servizi di connettività dovessero essere forniti con tecnologia FTTH (Fiber to the Home), mentre la ricorrente aveva indicato nella propria offerta l’utilizzo di servizi ADSL.

Nel corso del giudizio, l’operatore ricorrente aveva sostenuto che tale omessa indicazione era dovuta a un mero errore materiale, che poteva essere rettificato o corretto mediante soccorso istruttorio (anche in considerazione del generale impegno assunto dalla ricorrente al rispetto del capitolato di gara) e che, comunque, il servizio indicato nell’offerta (ADSL) assicurava prestazioni analoghe a quelle ottenibili con la tecnologia indicata nel bando (FTTH).

Il Consiglio di Stato, confermando la sentenza di primo grado, ha ritenuto infondate queste argomentazioni. L’utilizzo di servizi FTTH per la fornitura di connettività, infatti, costituiva chiaramente un requisito minimo essenziale del Capitolato Tecnico (almeno per alcune sedi comunali), conformemente a quanto previsto dall’art. 68, comma 5, D.Lgs. 50/2016, senza possibilità di utilizzare altre tecnologie alternative. Secondo il Collegio, dunque, la difformità tra il contenuto dell’offerta e i requisiti indicati nel bando di gara non costituiva un mero refuso o errore materiale emendabile, ma “tale difformità, attenendo alle specifiche tecniche minime della prestazione oggetto del servizio da affidare, a ben vedere, non poteva in alcun modo integrare un mero errore di calcolo o di scritturazione: pertanto, ad essa non poteva rimediarsi mediante rettifica, in quanto l’auspicato superamento di tale divergenza richiedeva il ricorso a fonti di conoscenza estranee all’offerta medesima, ovvero ad una nuova manifestazione di volontà mediante dichiarazione integrative o rettificative dell’offerta originaria, peraltro fuori termine”.

Da questo punto di vista, la sentenza ha escluso la possibilità di avvalersi di un soccorso istruttorio, dal momento che tale istituto non è utilizzabile per colmare una iniziale e sostanziale inadeguatezza degli elementi essenziali dell’offerta (come era, nel caso di specie, l’utilizzo di una determinata tecnologia), conducendo a modifiche sostanziali dell’offerta medesima.

Infine, è interessante notare che il Consiglio di Stato abbia anche esaminato la sussistenza della presunta equivalenza tra le prestazioni offerte con servizi basati su tecnologia ADSL (proposti dalla ricorrente) e FTTH (previsti dal Capitolato Tecnico). Tale equivalenza, sostenuta dall’appellante, è stata invece negata dal Consiglio di Stato, che ha pienamente condiviso quanto indicato dalla sentenza impugnata (TAR Lombardia – Brescia 1282/2017) in merito alle differenze tra i suddetti due servizi in termini di performance con riguardo sia alla stabilità, sia alla velocità della connessione.


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